L’Amore che facciamo
12th June - 12th July 2025
Il corpo è il luogo in cui l’essere si manifesta, si offre e si condivide, fino a potersi toccare. È il corpo a rendere possibile il mondo: senza di esso, non vi sarebbero esperienze, né presenze, né paesaggi. È in questa visione — che concepisce il corpo come evento, come pura esposizione di sé agli altri e al mondo stesso — che affonda le radici la pittura di Jacopo Zambello, sensuale e insieme contemplativa, carnale e bucolica.
La sua prolifica opera pittorica, articolata in cicli tematici, si interroga sulla percezione della realtà, trovando espressione nell’ambiguità dei soggetti rappresentati e nell’inserimento di elementi visivi inattesi, talvolta spiazzanti. La sua ricerca dischiude uno sguardo sul reale, al tempo stesso straniante eppur profondamente umano.
La pittura di Zambello nasce da una stratificazione metodica e sensibile: fotografie d’archivio, immagini amatoriali e nuovi reperti visivi vengono rielaborati, prima nel disegno e poi nella pittura, in una costruzione che mira a destabilizzare ogni forma di immediatezza. Il risultato è un insieme di corpi, atteggiamenti ed espressioni, frammenti di mondi che paiono familiari ma che, tuttavia, sfuggono a una narrazione lineare, aprendo lo spazio a un senso del reale più profondo e vibrante.
Il suo lavoro si muove in uno spazio sottile, dove la percezione della realtà è costantemente perturbata da ambiguità formali, slittamenti iconografici e apparizioni improvvise. Ogni opera si presenta come un enigma: un’immagine che, invece di svelarsi, si ritrae, generando uno sconvolgimento percettivo che coinvolge soventemente la dimensione più intima dell’esperienza. Le scelte compositive trasformano ogni scena in una traccia di immaginario evocativo, sospesa nella ricerca di quel momento liminale che Jean Baudrillard identifica con il concetto di cortocircuito — spesso associato all’iperrealtà, al disorientamento e alla perdita di significato nella società postmoderna. Senza oltrepassare il binomio tra realtà e rappresentazione, esse ne enfatizzano l’intreccio attraverso un gioco poetico e flessibile, che preferisce esplorarne la tensione anziché risolverla. L’iperreale baudrillardiano, in questo contesto, odora di metafisica: offre visioni intime e nude, che scavano nelle profondità dell’esistenza e nelle modalità dell’essere nel mondo.
Così, l’esposizione si fa complice e totalizzante: il corpo, le sue parti, le sue emissioni e l’ambiente circostante si riflettono ed esaltano reciprocamente, in un gioco di rimandi sensoriali. Ne scaturisce una frattura percettiva che attraversa tutte le figure in campo, evocando tematiche della percezione tanto ambigue quanto plurivoche. Qui, ogni cosa appare perennemente in tensione, immersa in un vortice dinamico tra interno ed esterno. I volti, segnati da leggere contrazioni — come scie di un sogno che fatica a svanire — rivelano il disagio che il corpo non riesce a nascondere. Intensa e invadente, la luce solare pare affaticare ogni respiro, amplificando il contrasto tra l’ozio e l’imposizione di un contesto, segnatamente iperattivo, che non lascia mai scampo. I corpi di quegli stessi volti trovano tuttavia pace nell’inevitabile gesto della minzione, raggiungendo uno stato di idealità fenomenologica senza pari, il culmine dell’esposizione fin qui evocata. Così il binomio si scioglie in una risoluzione fluida: corpo e paesaggio si fondono in una sintonia silenziosa, dove i confini svaniscono, cedendo il passo a una complicità percettiva che trascende le consuete coordinate spazio-temporali e le rigide regole accademiche della prospettiva. In questo equilibrio rarefatto affiora la natura stessa della relazione: il corpo è, innanzitutto, possibilità dell’alterità, e il tocco ne è l’espressione essenziale — gesto primordiale dell’essere-con, traccia sensibile di una presenza condivisa.
Pertanto, “L’amore che facciamo” — titolo ispirato a una riflessione più ampia di Jean-Luc Nancy nel suo saggio “Del Sesso” — si configura come un’indagine sulla ferita che attraversa l’essere umano contemporaneo: diviso tra istinto e artificio, tra sensibilità e automatismo, tra il fragore del paradosso tecnologico e l’improrogabile ritorno alla natura, tra l’anelito al contatto e la consapevolezza di una distanza incolmabile o di un’obliqua solitudine, talvolta percepita come diacronia tra pulsione e linguaggio, tra sesso e senso. Espressione dell’eterogeneo, questa mostra è una meditazione sull’altrove del desiderio e sulla condizione condivisa dell’esistenza; è l’amore del corpo per ciò che lo circonda, in quanto esposto e intimamente connesso a esso — un amore messo a nudo, proiettato simultaneamente dentro e fuori, che si apre ad abissi e a spazi intersiderali, scrutando gli angoli più reconditi del nostro inconscio, per poi balzare verso l’altissima, incandescente luce abbagliante del sole, lasciandosi infine baciare.
- Domenico de Chirico -









