Cosa Vedi

15 Settembre - 15 Ottobre 2025

Guardare non è mai un gesto scontato.

Ogni sguardo è un atto di scelta, una selezione silenziosa che compiamo senza rendercene conto. Non osserviamo mai il mondo così com’è, ma attraverso le lenti invisibili delle nostre esperienze, dei nostri desideri e delle nostre paure. Ciò che crediamo di vedere è sempre anche un riflesso della nostra interiorità.

Nell’epoca contemporanea questo meccanismo è diventato ancora più complesso. Come scriveva Walter Benjamin ne “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (scritto nel 1935), lo sguardo dell’uomo moderno non è più diretto, ma mediato dalla tecnica. Siamo circondati da immagini riproducibili all’infinito e guardare significa sempre di più consumare rappresentazioni seriali del mondo. A questa riflessione si collega John Berger, che in “Ways of Seeing” (del 1972) ci ricorda come il modo stesso in cui guardiamo trasformi e modifichi il significato delle immagini: lo sguardo non è mai neutro, ma creativo e interpretativo.

La mostra mette in scena due visioni che, apparentemente inconciliabili, finiscono invece per avere delle affinità.

Zhao Wenliang ci trascina nell’ombra. Sviluppa una pittura immediatamente riconoscibile, capace di muoversi sul confine instabile tra astrazione e figurazione. A uno sguardo distaccato, infatti, i suoi lavori sembrano quasi tessiture, campiture frammentate e inafferrabili. Eppure, avvicinandosi si rivelano densi di simbolismi, intrecci di mostri, figure e architetture che trasformano la superficie della tela in un varco: sipari, recinzioni, soglie. Lo spettatore è invitato a oltrepassarli per riemergere in mondi e racconti individuali, in atmosfere intime che si condensano in evocazioni personali che richiamano la tradizione cinese.

Vibranti e intense le “soglie” enigmatiche di Zhao Wenliang attraverso le quali affiorano paesaggi, boschi e distese popolate da guardiani, animali mitologici ed esseri viventi che ci accompagnano nel cammino immersivo dell’artista fino ad amalgamarci con essi.

Özlem Sorlu Thompson, al contrario, realizza paesaggi palpitanti e in continua trasformazione, caratterizzati da pennellate audaci, colori brillanti e prospettive mutevoli che sfidano le convenzioni tradizionali del genere paesaggistico. Elementi naturali e forme modellate si intrecciano in composizioni stratificate e ricche di dettagli, spesso arricchite da motivi floreali che richiamano la visione klimtiana. Prende spunto dai paesaggi naturali, dal cinema e dalla letteratura che trasforma con la propria immaginazione, mantenendo la complessità del processo creativo e del suo mondo interiore. Crea tavolozze intuitive e uniche, che dialogano con tradizioni artistiche come la pittura a campi di colore e il post-impressionismo. Il risultato sono visioni caleidoscopiche di flora e fauna, in costante evoluzione, che trasmettono energia, movimento e una straordinaria densità emotiva.

Il paesaggio che entrambi costruiscono non è mai neutrale. Non è la natura “pura”, ma una superficie che registra i segni della presenza umana, stratificando memorie individuali e collettive. Guerre, invasioni, architetture, forme urbane: tutto si imprime sul territorio, trasformandolo in un archivio fragile ma potente. È qui che i due artisti si incontrano, diversi nei risultati ma affini nel processo creativo. Entrambi traducono visioni interiori in immagini che sono al tempo stesso intime e universali.

La filosofia ci aiuta a comprendere questa tensione. Platone, con il mito della caverna, ci ricorda che ciò che vediamo sono soltanto ombre, proiezioni di una realtà più profonda che rimane nascosta. Nietzsche ci avverte che non esistono fatti, ma solo interpretazioni, e dunque ogni visione è inevitabilmente soggettiva.

E allora la domanda sorge spontanea: da quale prospettiva scegliamo di guardare? Ci lasciamo attrarre dal buio che custodisce l’enigma o dalla luce che promette rivelazione? O forse è proprio nello spazio di tensione tra opposti che nasce un nuovo modo di vedere?

Per questo la mostra non si limita a presentare opere, ma invita il pubblico a partecipare. In galleria troverete un quaderno predisposto per raccogliere i vostri “di-segni”: segni minimi, gesti grafici, piccole tracce che ognuno è chiamato a lasciare. Perché il disegno, come una lingua, è un linguaggio universale: al pari del cinese, dell’inglese o del francese, ci permette di comunicare pensieri, ricordi ed emozioni. Alla fine, questo quaderno diventerà un paesaggio collettivo, la stratificazione di tutti gli sguardi che hanno attraversato la mostra.

Da che parte state, allora? Dalla notte di Zhao o dalla luce di Özlem? O forse, più semplicemente, nello spazio di passaggio che nasce dall’incontro tra i due?

Guardare un’opera non significa contemplare qualcosa di esterno, ma specchiarsi in essa. E scoprire che ogni prospettiva diversa ci arricchisce, per sempre.

Filippo Zagarese

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